Quando si parla di leadership al femminile, si applica un concetto, declinato storicamente e socialmente al maschile, ad un'idea univoca della donna. Che cosa si intende con “leadership al femminile”, se non un'indistinta categoria delle donne chiamate ad esercitare un primato così definito da un mondo di uomini?

La donna leader non è altro che l'ennesimo oggetto del desiderio maschile che, canalizzato debitamente dai media e dalla cultura, ha finito per diventare un'aspirazione femminile. Si può azzardare un parallelismo con la finta emancipazione del corpo delle donne: in molte, oggi, si sentono padrone della propria corporeità proprio perché la esibiscono e la strumentalizzano a loro piacimento, per i loro scopi, senza però accorgersi che l'esibizione e la strumentalizzazione hanno come oggetto (e non di certo come soggetto) un canone di bellezza, di sensualità, di potere che è stato codificato da uomini. Ma è questa la vera femminilità?

Scrive Ariel Levy 1 che “le donne che vogliono essere considerate di potere preferiscono mascolinizzarsi piuttosto che elevare le altre donne al proprio livello (…) Alcune delle donne più carismatiche della nostra Storia sono state paragonate agli uomini, sia dagli ammiratori che dai detrattori”. Esiste “un tipo di donna (quella talentuosa, potente, spregiudicata) che difficilmente riusciamo a descrivere senza il confronto con l'uomo, e la maggior parte di queste donne non sembra crucciarsene più di tanto, con buona pace della sorellanza.”2

La donna leader, insomma, sembra tale soltanto in un contesto in cui il successo è propedeutico al carisma ed è declinato secondo categorie mascoline, prima ancora che maschili.

Nel suo controverso libro “Il Paradosso dei Sessi”3, la psicologa canadese Susan Pinker presenta molti casi di donne che, giunte ad un passo dal successo, decidono di fare marcia indietro e di optare per uno stile di vita più sostenibile, sebbene meno appagante dal punto di vista della carriera comunemente intesa. Tra le possibili motivazioni descritte dalla Pinker, c'è la percezione di un mondo del lavoro calibrato su stili di vita ed aspettative maschili, che pretende dalle donne una totale adesione al modello e ai suoi derivati più prossimi di una certa cultura aziendale, che ad effettive esigenze di produttività. Sembra che molte donne abbiano più a cuore i cosiddetti obiettivi intrinseci (relazioni, salute, crescita personale etc.) che quelli estrinseci (ricchezza, fama, immagine personale etc.) e questo, a fronte di un contesto professionale che ad alti livelli è solito pretendere straordinari, cene di lavoro fissate persino nel fine settimana, figli abbracciati quando sono ormai in pigiama e pronti per andare a dormire, le porta ad auto-sabotarsi, o ad operare rinunce più o meno serene. Quelle che, invece, non rinunciano, sono portate ad esercitare una competizione di genere più sottile – ma non per questo meno tossica – a scapito di donne più giovani e meno esperte. La cooperazione, insomma, non sembra un atteggiamento ritenuto vincente dalle donne che “ce l'hanno fatta”, anzi. Come api regine, queste ultime tendono a difendere il loro primato, spesso attraverso l'appoggio di uomini in posizioni-chiave. Sdoganata la figura della “donna del capo”, oggi è il “capo donna” ad occupare le prime pagine e l'attenzione di molti, spesso ignari del fatto che, proprio dietro il presunto successo di un “capo donna”, c'è un mentore di sesso maschile, un codice maschile, un atteggiamento mascolino, ed una serie di rinunce non sempre esplicite e serene . E' davvero questa, allora, la leadership femminile?

Declinare il concetto di leadership secondo le differenze di genere significa, innanzitutto, cambiare prospettiva e sguardo sul mondo: è più leader una solitaria dirigente d'azienda o una madre di famiglia? Lo è di più una reginetta di bellezza o un'attivista politica? Chi abdica al proprio benessere o chi lo nega per conseguire un'idea condivisa di successo? E il rapporto di coppia?

by Giustiniano La Vecchia